TANTO NON VIVE…
di Amina Contin
Questa storia me la raccontò mia madre e si sa… le madri non mentono mai, soprattutto alle proprie figlie, perciò, per quanto incredibile sembri, questa storia è la pura verità.
Lo zio Antonio (fratello di mia madre) nacque nel 1938 dopo soli 6 mesi e mezzo di gravidanza.
A quell’epoca si nasceva in casa, soprattutto se si era in campagna, soprattutto se si era figli di contadini.
Mia nonna, Ada, aveva continuato a lavorare nei campi durante tutta la gravidanza, dopo che un frettoloso matrimonio dovuto proprio all’improvvida maternità, l’aveva catapultata nella vita adulta. Lavorò e lavorò, com’era crudele consuetudine nella mia famiglia e in una patria di emigranti che cercava fortuna all’estero e lasciava le donne a strappare dalla terra le proprie necessità e poi… partorì, troppo presto, un «cosino» raggrinzito che pesava meno d’un chilo.
«Tanto non vive» sentenziò l’ostetrica battezzandolo immediatamente con il primo nome che le venne in mente, senza neppure consultare la madre. «Tanto non vive» disse accorgendosi che comunque, debolmente, respirava. Così piccolo era che non si poteva fasciare, né tantomeno vestire e allora lo misero in una scatola da scarpe, avvolto nell’ovatta.
Con la pietà contadina che includeva la nascita e la morte nella stessa grande ruota, posero la scatola da scarpe, il cotone e mio zio a fianco della nonna Giovanna (la nonna paterna di mio zio), allettata per una delle sue tante malattie, con il rispetto dell’attesa del compimento di un destino.
Giovanna aveva all’epoca pressapoco 50 anni (un’età ragguardevole all’epoca), soffriva di diabete, era la grande malata di famiglia, finalmente stava cedendo la responsabilità della casa a questa nuora conosciuta troppo in fretta, che aveva partorito troppo in fretta… ma quella scatola di cartone… prese il nipote fra le mani delicatamente, per non ferire quella pelle troppo sottile e fragile, e se lo mise fra i vecchi seni, aspettando anche lei che si compiesse una superiore volontà.
Parlavano con la complicità degli occhi, la nuora e la suocera, mentre una curava l’inspiegabile improvviso aggravamento del diabete, e l’altra la rassicurava sugli intenti con un complice sorriso: «Ci penso io, lo scaldo io» leggeva in quello sguardo.
Ada ingoiò la triste realtà di questo bambino che non piangeva, che non poteva succhiare al suo seno, che non sarebbe potuto sopravvivere, ma continuò a sperare e, pur tornando a lavorare nei campi, ogni mattino consegnava il latte del suo seno fra le mani di Giovanna. Lei, armata di tempo, pazienza e un contagocce, istillava goccia a goccia il nettare di madre fra le labbra del nipote, così come ricordava di aver fatto da bambina per tentar di far mangiare rondinotti minuscoli caduti dal loro nido.
Tre mesi durò la sua «grande malattia», durante i quali lei non si alzò mai dal letto, «covò» costantemente, con costanza, testardaggine, amore, quel suo primo minuscolo nipote, finché egli non riuscì non solo a sovvertire e smentire tutte le infauste previsioni, ma si attaccò al seno di sua madre con la voracità del recupero desiderato.
Guarì a quel punto, miracolosamente, anche Giovanna e campò altri 15 anni.
A 6 mesi mio zio era un po’ più piccolo degli altri bambini, a 3 anni nessuno più notava la differenza. Amava lo studio e desiderava emergere, con un’ambizione che sfiorava la voglia di riscatto. Guardava lontano lui, a 20 anni parlava quattro lingue e aveva girato tutta l’Europa.
Non ebbe una vita semplice, mio zio Toni, a 22 anni conobbe l’esaurimento nervoso, poi la malattia mentale, l’alcolismo, la violenza e la solitudine e morì a 60 anni, dopo un unico giorno di perfetta lucidità in oltre 30 anni di malattia, in cui rilesse la propria vita e decise di addormentarsi senza risveglio.
Ma questa è un’altra storia, forse…
[A. Contin (2009), Tanto non vive…, «D&D», n. 64, p. 31]